lunedì 22 marzo 2010

Chi ha paura muore ogni giorno ~ Giuseppe Ayala

«[...]siamo maturi e pronti a renderci conto che, al di là di questo o quel mascalzone di turno, la mafia è una componente stabile e organica del sistema di potere del nostro Paese? Che siede, direttamente o indirettamente, al tavolo delle decisioni che la interessano? Siamo disposti a prendere atto del fatto che magistratura e forze di polizia, se lasciate sole, non ce la faranno mai?» (pag. 99)

«Il senso civico, inteso come coscienza dell'appartenenza a una comunità, è del tutto ignoto. L'esaltazione dell'individualismo non trova limiti se non nella dimensione della famiglia, unica forma di nucleo sociale riconosciuta, talvolta in modo esasperato. La classe politica viene, perciò, selezionata esclusivamente sulla base di un rapporto clientelare. Il politico più apprezzato non è quello che è stato capace di dare risposte a interessi generali, ma quello che è riuscito a fare più favori, perché è questo che l'elettore pretende.» (pag. 103)

«"Ma tu te lo mangeresti un bambino?" chiesi un giorno a Falcone. "No!" fu la risposta. "Ma che razza di comunista sei!" esclamai. Sembrava, in effetti, di essere ripiombati nei lontani anni Cinquanta.» (pag. 158)

«Lo Stato aveva deciso di fermare se stesso proprio nel momento in cui stava registrando risultati esaltanti. E perché? Perché la mafia ce l'aveva dentro. Si faccia avanti chi è capace di dare una diversa risposta plausibile.» (pag. 175)

Questo racconto autobiografico di Ayala è la storia amarissima di un manipolo di veri e propri guerrieri, molti dei quali hanno espiato con una morte truce il peccato d'esser stati temerari, di aver difeso i propri altissimi ideali, di essersi mostrati integri e determinati a combattere
strenuamente una guerra impossibile per il proprio Paese.

Nemo propheta acceptus est in patria sua. Temo che a nessuno, meglio che a loro, quel proverbio si attagli.

Benché un suo pensiero venga riportato in copertina, Paolo Borsellino è solo sullo sfondo di questa narrazione, che si incentra, più che altro, sul rapporto professionale e di fraterna amicizia tra Ayala e Falcone e sulle reazioni al loro lavoro da parte del mondo esterno.

L'aspetto più inquietante e drammatico è l'emergere di una conferma, il consolidamento di quello che, al più, sarebbe solo un sospetto del lettore meno sprovveduto: una buona parte del nostro Stato non vuole combattere la mafia e, a volte, ha addirittura interesse a non farlo.

Ayala, Falcone, Borsellino, e molti come loro, misero in moto una macchina che funzionava bene, fin troppo bene; era efficiente e mieteva vittime. I nemici dello Stato (o coloro che avrebbero dovuto essere considerati tali) sarebbero stati falciati definitivamente, se solo lo Stato avesse voluto tenerla in moto e guidarla a dovere.

Il "fenomeno umano", come Falcone lo descriveva, avrebbe senza dubbio conosciuto una fine se il merito, le capacità, il coraggio di certi uomini fossero stati tenuti nella giusta considerazione.


Così non fu: quei giudici vennero messi al silenzio ed isolati. E, dopo aver letto la storia personale di Ayala, si apprende che, per non morire, "bisogna non essere soli".

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