domenica 31 gennaio 2010

Auschwitz-Birkenau 27/01/2010 - 21/03/2010

Oggi mi sono armato del solito coraggio che serve, in queste circostanze, ed ho affrontato la mostra su Auschwitz-Birkenau, al Complesso del Vittoriano. Aperta nella giornata della memoria, in occasione dei 65 anni dalla liberazione del campo, durerà fin quasi a fine marzo. Ho percorso i due piani dell'esposizione, restandovi circa tre ore, interessandomi ad ogni didascalia, ogni cimelio, ogni filmato, ogni fotografia. Ho letto tutto ciò che non fosse scritto in tedesco. Ho sostato a lungo davanti alle teche contenenti gli abiti di panno a righe dei prigionieri, con tanto di stella gialla appuntata. Non mi è riuscito d'immaginare come quegli stracci (e quelli soli) potessero mai proteggere dal gelo e dalla neve dell'inverno polacco.
Delle innumerevoli foto che ho visto, una mi ha colpito particolarmente: c'è una fila di bambini di non più di sei anni, si tengono per mano, sembrano una scolaresca; hanno i visi allegri, le guance paffute, le piccole chiome pettinate sotto i cappellini, i cappottini ben abbottonati; alcuni sorridono al fotografo, altri sono solo corrucciati per la curiosità, altri ancora parlano tra loro o guardano divertiti le proprie scarpe che affondano nel fango. Accanto ad essi delle donne, anche loro sorridenti. Io indugio sui visi dei bimbi, uno per uno, ne fisso le espressioni e nella mia testa penso di conoscere il loro destino. La didascalia informa che quel piccolo drappello di "inabili al lavoro" (sorrido... i bambini cos'altro potrebbero essere?) sta per essere accompagnato al treno che li porterà alla morte. Uccisi come vermi, appena scesi sulla Judenrampe. Di fronte a quella foto c'è una piccola teca di vetro, in cui è contenuto un vestito minuscolo, rosa pallido. Appartiene ad una bimba di due anni, che sorride, allegra e paffuta, nella foto accanto. Uccisa appena varcati i cancelli del campo.
Bambini: piccoli, rotondi, sorridenti, allegri; uguali a quelli che oggi dormono nei lettini delle stanze a fianco; uguali a quelli che corrono per strada spensierati; uguali ai figli e ai nipoti. Bambini di sessantacinque anni fa, tali e quali a quelli di oggi.
Meditate. Meditate che questo è stato.

mercoledì 27 gennaio 2010

...per non dimenticare...

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.


(Se questo è un uomo - Primo Levi)

sabato 23 gennaio 2010

...zorrobimbo...

Stasera, al supermercato, incontro Zorro. Alto neanche un metro, ha un mantello nero che gli scende sulle spalle, sopra il giubbottino verde, ed un cappello nero a falda tesa troppo largo per la sua testa, così che deve sollevarlo dagli occhi tutte le volte. Impugna un piccolo fioretto di plastica e, nel correre, nel ripiano più basso dello scaffale dei sughi la punta della sua piccola spada inciampa in una bottiglia di passata, che comincia a rotolare sul pavimento. Zorrino si spaventa; resta a guardarla, incerto sul da farsi, poi decide di andarle incontro, si china, la raccoglie con la sua piccola mano, ma non ce la fa ad alzarla, è troppo pesante; io che sto a guardarlo mi avvicino e gli dico: la sistemo io, piccolo, non preoccuparti. Lui sente la mia voce, alza la testa verso l'alto, la piega tutta all'indietro come se dovesse scrutare le nuvole; il cappello gli cade sugli occhi e con la manina deve sollevarlo; mi guarda un po' incuriosito, poi corre via, allegro e spensierato, a salvare i deboli.

giovedì 14 gennaio 2010

...onirismi kafkiani...

«Peccato, Signor L., un vero peccato! Lei se ne rende conto, vero?»
L'uomo che mi era seduto di fronte continuava a ciondolare il capo con aria costernata. Indicando il manoscritto innanzi a sé sulla scrivania, disse: «Lei comprende che questa sua opera, sì, chiamiamola col giusto nome, è tra le migliori produzioni letterarie di tutti i tempi, vero?»
Con un sorriso amaro aggiunse: «Io non so davvero se lei se ne renda conto». Diede un tiro alla sigaretta. Ci furono pochi secondi di silenzio. Mi guardavo attorno interrogandomi su quanto sarebbe durato ancora questo "incontro urgente".
Scosse ancora il capo, incredulo per la disgrazia accaduta.
«Col nostro aiuto, il prestigio della nostra casa editrice, lei avrebbe potuto raggiungere vette di vendita eccezionali e invece, che combina? per un semplice disguido tecnico, una chiamata che non l'ha raggiunta in tempo, il suo tempo», puntualizzò quel "suo" con un proiettile sparato dal suo dito indice, «lei si affida ad un editore minore, uno che probabilmente non ha neanche compreso ed apprezzato l'alto valore del suo lavoro» Scosse ancora il capo. Diede un altro tiro alla sigaretta. Altri secondi di silenzio.
Nel parlarmi, non mi guardava dritto in faccia. Invece la sua testa andava da sinistra a destra e ritorno, gli occhi esploravano il piano della scrivania di tanto in tanto concentrandosi sul monticello di fogli del mio manoscritto. Aprì casualmente la mia "opera", ne sfogliò qualche pagina, si soffermò a leggere, con il cilindro di tabacco tenuto tra le due dita che gli sorreggevano il capo. Vedevo i suoi occhietti fiammeggianti correre da sinistra a destra, e poi riprendere un po' più sotto, sempre da sinistra a destra, e più sotto ancora, stesso verso. Lesse un periodo che doveva essergli nuovamente piaciuto, sorrise leggermente a sé stesso, a conferma dei propri pensieri: un'opera geniale. Continuò ad agitare nell'aria dei no col capo. «Un capolavoro sprecato» disse quasi sottovoce. Non vedevo l'ora che quella mattinata finisse. Mentre mi parlava, lo studiavo: tracagnotto, sulla cinquantina, per essere buoni. Un viso gonfio, due guance cadenti. Tondo come una luna. Più largo che alto, seduto a quella scrivania ne vedevo solo la parte superiore del torso, ma tutto lasciava supporre che al di sotto del piano del tavolo si trovasse un'importante epa; mi chiedevo se toccasse il tappeto con i piedi. Cercai di indovinare di che colore fossero i suoi calzini. Vestiva un abito di un anonimo giallino, una cravatta che nessuno avrebbe mai indossato sul serio e i cui colori cangiavano a seconda della luce, una camicia di un colore scialbo, chiara anch'essa. Fissò gli occhi sulla prima cartella, batte' le mani sulla scrivania, si alzò in piedi e si diresse verso la vetrata sulla destra. Avevo ragione: una grande epa, di quella che i bottoni appena al di sopra della cintola fanno una gran fatica a restare al loro posto. Sbuffò ritmicamente, si fermò ad osservare fuori. La sua piccola e tonda sagoma si stagliò in controluce e lo fece ancora più minuscolo. Fumava. Aspettavo, attendevo che mi lasciasse andare. Sembrava che fissasse un punto particolare, di tanto in tanto si alzava sulle punte, come in un accesso di pensieri. Scosse ancora il capo, si prese il labbro inferiore tra l'indice e il medio che reggevano la sigaretta, tentò probabilmente di elaborare qualche soluzione ma, evidentemente, dopo aver constatato che non ve ne era nessuna, ridacchiò di scontentezza. Tornò velocemente al suo posto, spense la sigaretta frettolosamente nel posacenere ed esalando al ritmo delle parole il fumo rimastogli in gola, in tono deciso, severo e spedito aggiunse: «Lei ha sprecato una grande occasione, Signor L., mi creda. Sarebbe potuto diventare qualcuno, l'avremmo resa una persona ricca e, perché no, ne avremmo tratto il giusto anche noi. E invece...»
La mia colpa, versatami sulla testa dopo l'ingresso in quello studio, stava finalmente colando via, scivolandomi dal capo al tronco, dal ventre alle gambe, fino ai piedi e dai piedi adagiandosi sul grande tappeto persiano sotto la mia sedia. Fu un sollievo quando tese il suo braccino, mi porse la mano e, senza guardarmi, si accomiatò: «La saluto Signor L., buona fortuna». Non sembrava troppo convinto. Strinsi la sua mano, era sudaticcia. Nell'uscire dalla stanza mi voltai e lo vidi riadagiarsi sulla sedia, obliquo, lo sguardo rivolto al soffitto, meditabondo, l'espressione ancora costernata. In quella posizione, le gambe dei pantaloni leggermente alzate lasciavano intravedere i suoi calzini a strisce bianche e rosse.

lunedì 11 gennaio 2010

Di ritorno alla civiltà dopo quattro giorni passati a pascere a casa, mi accoglie una zaffata di merda dritta dritta nelle narici. Torno a godere della varietà di olezzi umani metropolitani. O forse olezzi di ani umani metropolitani. Non ho dormito e quindi mi sono alzato di buon'ora. Mi avvio a piedi nel freddo mattutino, da ponte Marconi lancio un'occhiata ad un Tevere incazzato, color del fango; facendo uno slalom tra merde e sputi resi ancor meno evidenti dai marciapiedi bagnati, giungo alla fermata San Paolo. Entro dall'ingresso degli handicappati, mi dirigo verso la scala mobile direzione Rebibbia e lì, in quel punto preciso, me lo ricorderò bene, una simpatica tanfata fetida invade il mio volto. Non puoi scappare quando sei sulla scala mobile, te la devi inspirare tutta, stipartela ben bene nei polmoni, godertela. E non puoi neanche lanciare il sacrosanto bestemmione mattutino, quello che ti viene fuori dalle occhiaie gonfie e dal disturbo che provi nel constatare che fai ancora parte del disgustoso consorzio di passeggeri dell'ora di punta. Sarà la grassona che ho di fronte e che se la fila con nonchalance? o il tizio con la valigetta? (il puzzo dava un po' di informatico, in effetti).
Che inizio d'anno di merda!...

domenica 10 gennaio 2010

"Il giardino dorato" - Harry Bernstein

Il meraviglioso epilogo della storia narrata ne Il muro invisibile e continuata ne Il sogno infinito. Ho divorato questo libro come gli altri due, ma questa volta tristemente consapevole che non ci sarebbe stata continuazione. Ci sono molte ripetizioni, ma è normale che sia così: l'autore non può essere certo che il lettore conosca anche gli altri due romanzi, per cui si limita a citare certi episodi narrati in essi, descrivendoli sommariamente, senza diventare noioso per chi, invece, ne è già a conoscenza. Personalmente consiglio la lettura dei due romanzi precedenti, prima di approdare al terzo. La mancanza di Ruby, che si conosce e si impara ad amare, tutti insieme, ne Il sogno infinito, in queste pagine si sente fortissima, e palpabile e commovente è l'immenso dolore di Bernstein per la sua scomparsa. Chiunque abbia dubbi sul fatto che due persone possano amarsi profondamente, li lasci dissipare leggendo questo romanzo. Ho apprezzato l'alternarsi del tempo presente e del tempo passato, capitolo per capitolo. Ammetto di essermi dovuto fermare, di tanto in tanto durante la lettura, chiudendo gli occhi per qualche secondo, aspettando di metabolizzare il grande dolore che Bernstein è così bravo a trasmettere.
Peccato per la traduzione italiana del titolo. Per essere in linea con il contenuto, sarebbe dovuto essere Il salice dorato (che è ciò che significa il titolo originale The Golden Willow). Spero tanto che Bernstein non si lasci sopraffare dai suoi 100 anni e continui a scrivere ancora e ancora e ancora.

giovedì 7 gennaio 2010

...pleonasmi commerciali...

L'altro ieri, in un bar, su un tavolino, in un delirio di caramelle, dolci, blocchetti di carbone zuccheroso, chupa chups e altre leccornie strappadenti inzeppate in calze, calzettine, calzettoni messi in bella vista per la Befana, ho scorto un recipiente con su scritto "guanti vuoti". In un primo momento non ho neanche immaginato che potesse alludere a dei guanti da riempire, in alternativa alle più classiche calze, ma mi sono soffermato a pensare su quel "vuoti".... "Guanti vuoti". Effettivamente, mi sono detto, sarebbe interessante (almeno più divertente) se si cominciasse a vendere la merce sottolineando tali suoi pleonastici aspetti: vendesi guanti vuoti (mani non incluse), sciarpe senza colli, scarpe senza piedi, guinzaglio senza cane, moto non provvista di guidatore. Ed altre, ugualmente interessanti, varianti sul tema: vendesi canotto sgonfio, vendesi lampadina spenta, vendesi panettone non morsicato, vendonsi pile cariche, portafogli vuoti, pasta non cucinata...

mercoledì 6 gennaio 2010

"Il sogno infinito" - Harry Bernstein

Mi sono accostato a questo libro con il timore che si riserva, di solito, alle "continuazioni". Ma Bernstein non mi ha deluso; no, non poteva! Questo romanzo, approdo naturale per chi viene da Il muro invisibile, tiene incollato il lettore alle proprie pagine esattamente come il predecessore. Bernstein ha quella facoltà magica di coinvolgere in una lettura appassionata, perché appassionato è il racconto. Sorprende il lettore, ad ogni angolo, con i tormenti, gli amori, i dolori e le gioie (rare) della sua vita vera e dura. Non si può non continuare ad amare sua madre, la dolce chioccia che si inizia a conoscere nel romanzo precedente; non può non inasprirsi l'odio per il burbero padre padrone; non ci si può non innamorare della dolce Ruby, sotto il salice piangente. Non si può non soffrire, commuoversi e gioire insieme a 'arry. Scrittore e lettore, in queste pagine, sono una cosa sola. Ho divorato questo romanzo in soli due giorni ma non ho tempo di fermarmi, è già ora di tuffarmi ne "Il giardino dorato". Non senza un po' di tristezza nel cuore, sapendo che è l'ultimo della "serie" e consapevole che Bernstein, classe 1910, si sente troppo vecchio (ahimè) per scrivere ancora.