sabato 28 febbraio 2009

supermarket

Nel mettermi in fila, faccio appena a tempo a schivare le eiezioni umide di un poderoso starnuto eseguito dall'uomo davanti a me. Ridacchia come se avesse appena giocato uno scherzo a qualcuno e muove le labbra in un dialogo silenzioso. Sembra doverne fare un altro e assume un'espressione che vuol significare "eccolo, sta arrivando", ma fortunatamente il suo organismo ci ripensa. Un ometto dai capelli bianchi ingobbito e racchiuso in un loden verde è il padre. Lascia passare suo figlio perché riponga i prodotti nel carrello, si muove a passettini rigidi e orizzontali, avanti e dietro. Si è affrettato a infilare tra la sua roba e la mia un separatore, non sia mai si trovi a dover pagare per sbaglio uno qualsiasi dei miei ignominiosi articoli: due scatole montabili di plastica che odora di canotto, un deodorante alla mela verde per rendere nauseabonda la mia camera, millecinquecento buste portadocumenti trasparenti.
La cassiera gli comunica la cifra da pagare, la quale sfortunatamente vanta un buon numero di centesimi.
«Eeeeeh?» fa l'ometto, portandosi una mano all'orecchio.
Ora, il dialogo potrebbe procedere in maniera sciolta, se non fosse che costui è sordo come una campana e la donna ha evidenti problemi a pronunciare una qualsiasi consonante.
«Fifiaffette euvo e feffantafei»
«Eeeeeh?» ripete l'ometto.
«Fifiaffette euvo e feffantafei!» esclama lei, evidentemente ignara che alzare la voce non basta a rendere comprensibile la richiesta.
«Papà, papà, papà, dove li metto?» invoca il figlio, riferendosi alla merce acquistata.
Le parole raggiungono i meati acustici di suo padre ma, non trovando accoglienza, si disperdono nel vuoto.
L'ometto si rassegna a leggere quanto mostra il display della cassa e tira fuori un blocchetto di buoni pasto.
«Fa fuanto fono?» chiede la cassiera.
«Eeeeeh?»
«Fa fuanto fono?»
«Papà, papà, papà...»
L'ometto è confuso, non ha colto il labiale, allora la donna allunga un dito verso l'angolo di un buono e vi legge la cifra riportata: «Fuattvo euvo e tvefici».
«Quattro euro e dieci... no, quattro euro e tredici» legge l'ometto, quindi le urla «Quattro euro e tredici!»
«Papà, papà, papà, dove li metto?»
Io alzo gli occhi al cielo invocando l'aiuto di una qualsiasi divinità alberghi sopra le nuvole.
La cassiera conteggia un certo numero di buoni e si lancia, incautamente, in una richiesta: «Ha fpiffioli?»
«Eeeeeh?» l'ometto riporta la mano a conca all'orecchio.
«Papà, papà, papà, dove li metto?»
«Ha fpiffioli?... FPI-FFIO-LI !» la donna gli mima il termine e questi miracolosamente comprende.
L'ometto, con movimenti da testuggine, estrae dalla tasca un portamonete e si scodella sul palmo un esercito di spiccioli. La cassiera pesca qualche graduato e un po' di soldati semplici e gli consegna lo scontrino.
Finalmente tocca a me.

«Falfe! fuole una bufta?»
«Eeeeeh?»

venerdì 27 febbraio 2009

commiato

Sono finalmente le diciotto. È l'ultimo giorno, è proprio arrivato. Una stretta di mano, due baci cordiali sulle guance e un abbraccio ai colleghi più "intimi". Anche se il soggiorno è durato solo cinque mesi, fa un effetto strano lasciare un luogo dove si è lavorato sodo, ci si è infuriati, ma soprattutto si è scherzato e riso. Mi mancherà il finto dilemma, ogni sacrosanto giorno, su dove andare a pranzare, per poi finire - lo sappiamo tutti - dal solito paninaro. Mi mancherà rifarmi gli occhi con le turiste che passeggiano in centro e, soprattutto, mi mancherà Castroni.
Chiudo il portatile, lo infilo nello zaino, mi assicuro di non lasciare in giro nulla di mio.
«Sei proprio sicuro di voler andare?»
«Ci penso» rispondo io sardonico, con il giaccone indosso.
«Il tuo telefono ce l'abbiamo? se avessimo bisogno possiamo chiamarti?»
«Tranquilli, non c'è problema»
La mia mano ondeggia, salutando tutti...

giovedì 26 febbraio 2009

netlingo

Se c'è una parola che mi dà ai nervi sul serio è internauta. Ma scusi, "internauta" a chi? Esistono detentori della lingua (come i quotidiani nazionali) che hanno evidentemente mal digerito il passaggio repentino dalla cartapecora ai bit e per essi sono nati, vivono e prosperano neologismi che non hanno mai attecchito tra gli addetti ai lavori. Ai canuti giornalisti italiani piace particolarmente dare dell'internauta o del navigatore, alla stregua dell'odioso (e odiato) centauro per il motociclista.
Per non parlare poi del cyberspazio (veramente indigesto quando il masticatore d'inglese di turno lo pronuncia "saiberspazio") o del bon ton telematico battezzato con una fantasiosa crasi: netiquette. Posso sorvolare su ciascuno di questi, davvero, posso soprassedere, ma su "internauta" no, su "internauta" non me la sento...

pure io

Copiando vitaIE anche io da oggi voglio rendere il mio blog internazionale!
Per questo ho aggiunto il riquadro per la sua traduzione. Il traduttore di Google lascia abbastanza a desiderare... ma fa figo!

martedì 24 febbraio 2009

sconcertante

In generale è difficile giudicare il valore di un'autobiografia; in questo caso è eccezionalmente difficile. Il mio giudizio positivo si riferisce soltanto al valore istruttivo di quest'opera e non - ma questo è ovvio - al racconto in essa contenuto.
In queste memorie io ho percepito due Höss. Il primo è l'essere umano, un piccolo-borghese che persegue pateticamente, e con un risultato alquanto misero, un intento apologetico: rivalutare la sua persona alla luce di ciò che recentemente si è consumato sotto i propri occhi e della cui gravità egli non sembra rendersi conto alla perfezione. Il secondo (quello che, al contrario del primo, io reputo il vero Höss) è il nazista: il soldatino ligio imbevuto di dottrina militare; il funzionario patologicamente afflitto da senso del dovere; il gerarca fedelmente abbarbicato all'Idea hitleriana quale unica soluzione possibile. Ipocrita e snervante il primo, con la sua concezione tutta teutonica del lavoro, la sua falsa afflizione, i suoi sogni bucolici infranti, la sua famigliola felice e prospera all'interno di un recinto infernale; freddo e spaventoso il secondo, con la sua totale dissociazione, le sue descrizioni asettiche, i suoi resoconti da automa. Nonostante egli stia mettendo per iscritto i propri ricordi durante la prigionia, in attesa d'essere impiccato, non disdegna di dipingere gli omosessuali come dei malati da curare con il lavoro duro, le donne come esseri indegni di fiducia, i prigionieri in generale come animali da fatica, gli ebrei come ebrei, cioè il male del mondo. È realmente convinto che sia esistito un antisemitismo sano e che le politiche del Reich, partite col piede giusto, lo abbiano in seguito avvilito. Il vero Höss, il nazionalsocialista fin nelle ossa, è colui che guarda agli internati come bestie da soma: peccato farle morire d'epidemia se possono compiere ancora un buon lavoro. Quando analizza i comportamenti dei deportati addetti alle operazioni macabre di gasazione, svestizione e cremazione dei defunti (azioni per cui né egli, né i suoi sottoposti avrebbero mai potuto sporcarsi le mani), sembra avere gli stessi occhi di uno zoologo alle prese con le cavie nel suo stabulario. Come già detto, lo stile di quest'opera è mediocre, esattamente come il suo autore, la si legga solo se si ha un vivo interesse storico. Si fa spesso fatica ad andare avanti; non si superano agilmente quei punti in cui, in modo glaciale, Höss dettaglia i massacri copiosi ed efferati.
A fronte della tragedia immane consumatasi pochi anni prima la sua stesura, non credo ci sia altro aggettivo, per definire questo testo, che "sconcertante".

lunedì 23 febbraio 2009

saggezza greca

"«Quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo luogo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo, perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovare da mangiare, mentre non vale l’inverso».
«Ma la guerra è finita» obiettai, e la pensavo finita, come in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi.
«Guerra è sempre» rispose memorabilmente Mordo Nahum"

(Primo Levi, La tregua)

domenica 22 febbraio 2009

Interessante la visita di oggi alla gipsoteca del Vittoriano sulla legislazione antiebraica in Italia. Non posso dire "bella", perché non c'è nulla di bello in quello che ho visto. Ieri, sull'autobus dal centro verso casa, la coda dell'occhio aveva colto la stimolante scritta Leggi razziali. Una tragedia italiana, su un pannello penzolante fuori dal complesso, e l'ancor più stimolante ingresso gratuito, poco sotto. Credo d'essermi incanalato nel lungo serpentone della mostra al contrario, cioè dall'uscita verso l'entrata, ma ho trovato quanto esposto ugualmente godibile. È un periodo in cui sono particolarmente sensibile al tema. Sono reduce infatti dalla lettura de Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi di Michele Sarfatti, un libretto illuminante. Illuminante soprattutto (e al contrario di quanto si potrebbe credere) sull'intraprendenza tutta italiana nel concepire questo esecrabile atto di discriminazione. Terrificante, vergognosa e aberrante l'esposizione così sfacciata, condivisa e acclamata dell'antisemitismo, durante gli anni del fascismo, nonché l'analisi simil-lombrosiana degli stereotipi fisici del "giudeo". Sapevo che avrei trovato, in qualche forma, il discorso di Mussolini a Trieste e così è stato: fa da colonna sonora incalzante, martellante, ripetitiva per tutta la durata del giro. Vedere le casse delle SS e gli effetti personali dei deportati non lascia indifferenti, così come le valige accatastate a fianco di un troncone ferroviario e i biglietti, pressoché illeggibili, gettati dal treno merci. Unica pecca: l'ambiente un po' troppo buio, che a volte ha reso difficoltosa la lettura delle didascalie. Peccato aver visto questa mostra solo oggi, il suo ultimo giorno, e quindi non poter più gridare al mondo di andarci...

venerdì 20 febbraio 2009

shema

Voi che vivete sicuri / You who live secure
Nelle vostre tiepide case, / In your warm houses
voi che trovate tornando a sera / Who return at evening to find
Il cibo caldo e visi amici: / Hot food and friendly faces:
Considerate se questo è un uomo / Consider whether this is a man,
Che lavora nel fango / Who labours in the mud
Che non conosce pace / Who knows no peace
Che lotta per un pezzo di pane / Who fights for a crust of bread
Che muore per un sì o per un no. / Who dies at a yes or a no.
Considerate se questa è una donna, / Consider whether this is a woman,
Senza capelli e senza nome / Without hair or name
Senza più forza di ricordare / With no more strength to remember
Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Eyes empty and womb cold
Come una rana d'inverno. / As a frog in winter.
Meditate che questo è stato: / Consider that this has been:
Vi comando queste parole. / I commend these words to you.
Scolpitele nel vostro cuore / Engrave them on your hearts
Stando in casa andando per via, / When you are in your house, when you walk on your way,
Coricandovi alzandovi; / When you go to bed, when you rise.
Ripetetele ai vostri figli. / Repeat them to your children.
O vi si sfaccia la casa, / Or may your house crumble,
La malattia vi impedisca, / Disease render you powerless,
I vostri nati torcano il viso da voi. / Your offspring avert their faces from you.

(Primo Levi, Se questo è un uomo - traduzione inglese di Ruth Feldman e Brian Swann)

giovedì 19 febbraio 2009

Da un bel po' c’è un gattone là fuori che piange. Miagola, guaisce, prega e si dispera, avvinto dall’amore miciesco. Si strema in cantilene così dolorose, si contorce così tanto per la freccia di Cupido nel proprio cuore felino, vagisce così insistentemente, che viene quasi voglia di uscire e cambiargli il pannolino...