giovedì 14 gennaio 2010

...onirismi kafkiani...

«Peccato, Signor L., un vero peccato! Lei se ne rende conto, vero?»
L'uomo che mi era seduto di fronte continuava a ciondolare il capo con aria costernata. Indicando il manoscritto innanzi a sé sulla scrivania, disse: «Lei comprende che questa sua opera, sì, chiamiamola col giusto nome, è tra le migliori produzioni letterarie di tutti i tempi, vero?»
Con un sorriso amaro aggiunse: «Io non so davvero se lei se ne renda conto». Diede un tiro alla sigaretta. Ci furono pochi secondi di silenzio. Mi guardavo attorno interrogandomi su quanto sarebbe durato ancora questo "incontro urgente".
Scosse ancora il capo, incredulo per la disgrazia accaduta.
«Col nostro aiuto, il prestigio della nostra casa editrice, lei avrebbe potuto raggiungere vette di vendita eccezionali e invece, che combina? per un semplice disguido tecnico, una chiamata che non l'ha raggiunta in tempo, il suo tempo», puntualizzò quel "suo" con un proiettile sparato dal suo dito indice, «lei si affida ad un editore minore, uno che probabilmente non ha neanche compreso ed apprezzato l'alto valore del suo lavoro» Scosse ancora il capo. Diede un altro tiro alla sigaretta. Altri secondi di silenzio.
Nel parlarmi, non mi guardava dritto in faccia. Invece la sua testa andava da sinistra a destra e ritorno, gli occhi esploravano il piano della scrivania di tanto in tanto concentrandosi sul monticello di fogli del mio manoscritto. Aprì casualmente la mia "opera", ne sfogliò qualche pagina, si soffermò a leggere, con il cilindro di tabacco tenuto tra le due dita che gli sorreggevano il capo. Vedevo i suoi occhietti fiammeggianti correre da sinistra a destra, e poi riprendere un po' più sotto, sempre da sinistra a destra, e più sotto ancora, stesso verso. Lesse un periodo che doveva essergli nuovamente piaciuto, sorrise leggermente a sé stesso, a conferma dei propri pensieri: un'opera geniale. Continuò ad agitare nell'aria dei no col capo. «Un capolavoro sprecato» disse quasi sottovoce. Non vedevo l'ora che quella mattinata finisse. Mentre mi parlava, lo studiavo: tracagnotto, sulla cinquantina, per essere buoni. Un viso gonfio, due guance cadenti. Tondo come una luna. Più largo che alto, seduto a quella scrivania ne vedevo solo la parte superiore del torso, ma tutto lasciava supporre che al di sotto del piano del tavolo si trovasse un'importante epa; mi chiedevo se toccasse il tappeto con i piedi. Cercai di indovinare di che colore fossero i suoi calzini. Vestiva un abito di un anonimo giallino, una cravatta che nessuno avrebbe mai indossato sul serio e i cui colori cangiavano a seconda della luce, una camicia di un colore scialbo, chiara anch'essa. Fissò gli occhi sulla prima cartella, batte' le mani sulla scrivania, si alzò in piedi e si diresse verso la vetrata sulla destra. Avevo ragione: una grande epa, di quella che i bottoni appena al di sopra della cintola fanno una gran fatica a restare al loro posto. Sbuffò ritmicamente, si fermò ad osservare fuori. La sua piccola e tonda sagoma si stagliò in controluce e lo fece ancora più minuscolo. Fumava. Aspettavo, attendevo che mi lasciasse andare. Sembrava che fissasse un punto particolare, di tanto in tanto si alzava sulle punte, come in un accesso di pensieri. Scosse ancora il capo, si prese il labbro inferiore tra l'indice e il medio che reggevano la sigaretta, tentò probabilmente di elaborare qualche soluzione ma, evidentemente, dopo aver constatato che non ve ne era nessuna, ridacchiò di scontentezza. Tornò velocemente al suo posto, spense la sigaretta frettolosamente nel posacenere ed esalando al ritmo delle parole il fumo rimastogli in gola, in tono deciso, severo e spedito aggiunse: «Lei ha sprecato una grande occasione, Signor L., mi creda. Sarebbe potuto diventare qualcuno, l'avremmo resa una persona ricca e, perché no, ne avremmo tratto il giusto anche noi. E invece...»
La mia colpa, versatami sulla testa dopo l'ingresso in quello studio, stava finalmente colando via, scivolandomi dal capo al tronco, dal ventre alle gambe, fino ai piedi e dai piedi adagiandosi sul grande tappeto persiano sotto la mia sedia. Fu un sollievo quando tese il suo braccino, mi porse la mano e, senza guardarmi, si accomiatò: «La saluto Signor L., buona fortuna». Non sembrava troppo convinto. Strinsi la sua mano, era sudaticcia. Nell'uscire dalla stanza mi voltai e lo vidi riadagiarsi sulla sedia, obliquo, lo sguardo rivolto al soffitto, meditabondo, l'espressione ancora costernata. In quella posizione, le gambe dei pantaloni leggermente alzate lasciavano intravedere i suoi calzini a strisce bianche e rosse.

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